Il terremoto in Emilia

La cicatrice che ha lasciato il sisma del 20 e 29 maggio scorso, è dolorosa e profonda; ci vorrà del tempo perchè si rimargini. Ma le popolazioni colpite stanno dimostrando grande dignità nel dolore e grande forza per cercare di rimettere in moto l’economia e la vita di tutti i giorni anche grazie ai volontari e ai vari aiuti e alle iniziative di solidarietà che si sono moltiplicate in questi mesi. La giornalista-scrittrice Annalisa Vandelli con la sua capacità di interpretare i fatti e la sua verve letteraria, descrive in questo articolo quello che ha visto nelle zone terremotate visitate insieme al fotografo Luigi Ottani con l’intento di farne un libro-reportage...

Il terremoto in Emilia_Ottani_Vandelli

La nostra Emilia si è spaccata improvvisamente, cadendo a terra, come un oggetto stanco del suo stesso peso.
Ci ha lasciati attoniti, di fronte a macerie in carne ed ossa.
La nostra terra ci ha detto: comando ancora io e scrollatemi di dosso quell’aggettivo possessivo “nostra”.
E noi pieghiamo la testa.
Il mattone su cui abbiamo investito ha finito per investire noi: simbolo di un periodo epocale in cui un’economia dissennata, che non affonda le proprie radici nella concretezza, ci ha sopraffatti? Una perversa forma di speculazione ha prostrato a terra le sue creature, giovani case dicarta; ma quel che è peggio: ha visto seppellire vite umane.
Tragedie come questa devono quantomeno insegnarci qualcosa.
E poi i simboli: sono caduti municipi, teatri, luoghi di culto, torri, edifici storici… tutto ciò in cui una società si specchia, trova la sua coesione e la propria memoria.
E noi pieghiamo la testa.
E ancora le fabbriche, luoghi del futuro, in cui attraverso il lavoro si genera la certezza dell’oggi e del domani: crollate su se stesse hanno generato morte.
E noi pieghiamo la testa.
Ma poi, umilmente, le persone della “bassa” l’hanno sollevata la testa, si sono guardati tra loro e riscoperti in un sentimento di forte condivisione della disgrazia e poi della ricostruzione. La gente vuole lavorare, da subito. Andare avanti. Sotto le tende, ma continuare a vivere e ad amare quella terra così severa che ha dato tanto e tanto ha tolto.
Questa contagiosa molla interiore carburata a salame, gnocco fritto e lambrusco ha risvegliato in me e Luigi Ottani lo stimolo per metterci in gioco con il nostro lavoro di giornalista e fotoreporter, cercando le chiavi giuste per raccontare lo spirito emiliano che, come un instancabile paranco, solleva da terra ciò che sembra irrecuperabile.
In due mesi di viaggio per terre conosciute, ma che improvvisamente hanno cambiato faccia, abbiamo raccolto un materiale prezioso, quasi un distillato della distruzione e del germe di una ricostruzione. Abbiamo lasciato che il viaggio si dipanasse e raccontasse da sé, riscoprendo luoghi, persone, attività, angoli di visuale preziosi per restituire ciò che sarà un ricordo. E fare ricordo è l’attitudine del reporter: cristallizzare, ibernare in un racconto il distillato di una storia più dilatata, come dilatata è la vita dell’uomo sulla terra.
In questo crollo, sono nate amicizie e incontri preziosi: i volontari, i vigili del fuoco, tutta quella massa silenziosa e operosa che è arrivata ad aiutare, ma anche a condividere. La parte più difficile è sempre raccontare l’invisibile, perché è umile, discreto e poco appariscente, ma in questo silenzio racchiude il valore enorme della sua grandezza.
E anche questo abbiamo provato a fare in un libro che vedrà la sua pubblicazione nei prossimi mesi, un tentativo di porre un punto fermo per parole e immagini di una storia contemporanea che, come tale, coinvolge tanto della nostra vita passata, dei nostri avi e di tutto ciò che ha sempre reso tanto alta la “bassa”. Ecco un’anticipazione di quello che troverete nel libro...
 

Zona rossa 
«Ragazzi, siete stati fantastici – una donna, col caschetto giallo in testa e una busta di plastica rigonfia in mano, ringrazia i vigili del fuoco, uscendo dal centro storico transennato di Mirandola – vi mando i tortellini a casa, appena mi procuro un tagliere e un mattarello. Ve li mando per posta».
Si sorridono.
C’è tempo un quarto d’ora per entrare con i vigili del fuoco in quel che resta della propria casa e prendere le poche cose. Bisogna fare mente locale prima, studiare il necessario che può contenere una borsa, poi andare in fretta, camminare al centro della strada, entrare uno alla volta, tenere sempre d’occhio la via di fuga: fuga dalla propria casa e da quelle che sempre ci sono state familiari.
La zona rossa è una parola nuova. Il terremoto porta anche questo: l’irruzione di parole e oggetti prima sconosciuti, quasi a risarcire di quelli che si è portato via. C’è anche un’applicazione i-phone per restare sempre aggiornati su luogo, data e magnitudo.
La zona rossa è quella in cui non si deve entrare per i pericoli di crollo. La zona rossa sono i centri storici, è l’odore di cemento come se il naso fosse costretto nelle insenature delle macerie.
Nell’antichità ai crocicchi delle strade, negli incroci principali, nei luoghi di accesso alle città si ergevano le sculture dedicate a Hermes, messaggero degli dei, ma anche accompagnatore delle anime verso gli inferi. L’immagine del dio stava a benedire la scelta di chi cambiava strada o continuava a percorrere quella principale, a sottolineare la delicatezza del momento, del cambiamento, del camminare e provare esperienze nuove.
Con il cristianesimo Hermes viene sostituito dalle maestà, dalle immagini sacre che sostengono il viandante. Con il terremoto invece, ci si trovano giovani in carne e ossa, volontari in giacca gialla a salvare da rischio di crollo e sciacalli. Giorno e notte stanno lì, agli ingressi del centro storico tarlato. Non benedicono, ma laicamente proteggono.
Entriamo nel centro di Concordia.
Una ghigliottina di silenzio cala, dove ancora le orecchie ricordano il brulichio del mercato, un campanello di bicicletta, un cane che abbaia lasciato fuori dal negozio, l’accartocciarsi della pioggia sull’asfalto, di quando si dice che l’acqua fa i tortelloni per terra. L’orecchio ricorda una marea di immagini che non esistono più.
Il Municipio ha più di due crepe a forma di x segnate sulla facciata. «A lume di naso – dice il pompiere che ci accompagna – quando le x sono tre non c’è più niente di buono, è da buttar giù tutto. La prima scossa sussultoria è un segno obliquo, la seconda ondulatoria, che tira al contrario, è l’altro segno obliquo”. Una mano perversa ha schiaffeggiato, inciso le case, che hanno resistito alla sua forza devastatrice, con il marchio della fine. E ciò che non giace a terra è segnato».
Entriamo in chiesa dalla sagrestia. Il parroco diligentemente apre, estraendo con precisione dal suo mazzo di chiavi. Due mandate. Tutto a terra: il soffitto, i quadri, il coro, l’organo, l’altare, pezzi di muro, le invocazioni di secoli. Tutto stremato, accatastato, interrotto da qualche svolazzo di piccione. Come in tutte le chiese, anche in quelle cadute, fa più freddo. Il rumore dei passi è diverso, è di maceria, come se anche il tuo corpo fosse minacciato, messo in guardia dal risucchio della fine. C’è un gorgo che tira di sotto ogni corpo e anche tu ciocchi di maceria.
Bisogna uscire in fretta. Il parroco raccomanda le due mandate. Chiude dentro il caos.
Camminiamo.
Le auto parcheggiate non sono cariche di persone, ma di tetti e di muri. Anche l’air bag è rimasto sorpreso e non si è aperto in tempo. Non è previsto che lo schianto arrivi dall’alto.
Tutto qui è rimasto sorpreso, immobile, pietrificato all’ora che l’orologio del Municipio non fa avanzare. Il terremoto congela l’attimo della caduta. Invade tutto per dire “mio”, per comunicare all’uomo che “mio” lo può dire solo lui.
Camminiamo in una città fantasma. Spopolata, senz’anima, come la quinta di un film.
Ma qui, anche gli attori se la sono data a gambe: quelli che hanno potuto.

ANNALISA VANDELLI
Negli ultimi anni, è stata reporter/inviata speciale in zone di emergenza per il nostro Ministero degli Affari Esteri in: Nicaragua, Tunisia, Guatemala, Pakistan e Territori Palestinesi. In tali occasioni ha prodotto foto, testi, reportage per la rivista “Cooperazione Italiana Informa”, due libri bilingui italiano/spagnolo e seguito varie attività di comunicazione. Nel 2007 ha lavorato un anno in Etiopia con Uliano Lucas, producendo il libro Scritto sull’acqua, poi opera teatrale interpretata da Ivana Monti, Anna Palumbo e Teri Weikel.
In Etiopia ha lavorato anche per il Ministero degli Affari Esteri per la comunicazione del programma su minori e politiche di genere. Per 7 anni è stata responsabile dell’ufficio stampa e comunicazione di Sat Spa e per un anno di Satcom Spa. E’ stata per un anno Amministratore Delegato di Area Aree. Dirige due riviste: Afro (www.afromagazine.it) con sede in Abruzzo e Il Barrito con sede a Scampia (Napoli). Ha collaborato con diversi giornali, radio, tv; ha vinto il premio di giornalismo Hombres. Ha lavorato sempre a livello giornalistico in Kenya e Saharawi.

 

LUIGI OTTANI
Fotografo, giornalista.
Ha pubblicato i suoi scatti sulle maggiori testate nazionali.
Alterna ricerche sui microcosmi italiani a racconti di reportage internazionale. Con numerose pubblicazioni e mostre ha raccontato differenti aspetti sociali del mondo contemporaneo: la povertà del Sahel in Eritrea, la vita nei campi profughi Saharawi, il dopoguerra in Bosnia, la piaga della prostituzione minorile in Cambogia, lo Sri Lanka colpito dallo Tsunami, il dramma della convivenza israeliano-palestinese, la vita nella “zona morta” a Chernobyl, lo Hunan, la difficile realtà di alcuni quartieri urbani italiani, le minoranze etniche dello Hunan Cinese, il ricordo di Beslanin Ossezia del Nord.
Con il volume “NietProblema}.” ha vinto il premio “Marco Bastianelli”,
riconoscimento al miglior libro fotografico italiano edito nel 2006. Nel 2011 ha ricevuto il premio giornalistico “Bruno Cucconi” per la fotografia del progetto “Tracce di sport” di Andrea Zorzi.
Attualmente collabora con organi istituzionali, agenzie di comunicazione ed importanti aziende italiane.


 
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