“Media e Stereotipi di Genere”
Milano 11 Novembre 2019

a cura di Alice Scolamacchia

Aula Magna, Palazzo di Giustizia, Milano: magistrati e avvocati per l’esame delle proposte di legge 29.12.18 (proroga governance quotate) e 23.3.19 (parità accessi cariche CSM) depositate in Parlamento dall’avvocato onorevole Rossello. Tempi e azione sono ineludibili: la sveltezza nel confezionare e depositare una proposta ha sbaragliato tutti. Da qui è nato il dibattito. E senza inutili protagonismi l’onorevole Rossello ha lasciato fare anzi ha favorito il dibattito mettendosi da parte e lasciando ad altri di primeggiare sui temi che ha individuato: questo è il ruolo del civil servant così esemplare per le nostre generazioni! Autenticità e solidarietà super partes: questa è la verità premiante che emerge dai lavori parlamentari.
-Il convegno si propone di illustrare in una prospettiva interdisciplinare gli stereotipi di genere e gli effetti della loro trasposizione sui social. Importante è partire proprio dal titolo che è stato dato a questo convegno “Media e sterotipi di genere”. Ricordo che la parola “stereotipo” deriva dalle parole greche stereos (duro, solido) e tupos (immagine, gruppo) dando quindi l’idea non solo di qualcosa che identifica un gruppo di persone, ma di un qualcosa di resistente e che molto difficilmente può mutare. Se da un lato, quindi, lo stereotipi può semplificare un concetto rendendo la rappresentazione della realtà più intuitiva dall’altro, però, non è piacevole sapere di rientrare in una categoria, che si limita ad associare una serie di caratteristiche a persone/gruppi, on a oggetti senza preoccuparsi di verificarne la veridicità. 
Gli stereotipi di genere sono meccanismi di categorizzazione che dovrebbero “aiutare” a individuare cosa sia maschile e cosa, invece, femminile, nel senso culturale, ovvero in base a quelle che sono le aspettative della società rispetto a uomini e donne. Parlare in maniera tanto netta e così distinta di ciò che uomini e donne possono fare, ciascuno secondo il proprio sesso di appartenenza, condiziona notevolmente la percezione del mondo, soprattutto proprio nell’età infantile, quando si iniziano a creare i modelli di apprendimento che poi si seguiranno da adulti.
Viviamo un momento storico delicato, in cui ancora, qualcuno, riesce a credere a quei luoghi comuni secondo i quali i cervelli maschili e quelli femminili sarebbero strutturalmente e funzionalmente diversi. Credenze diffusissime, accreditate per anni anche, e purtroppo, da sedicenti studi scientifici che in realtà sono serviti esclusivamente ad alimentare un binarismo di genere e a giustificare pericolosamente da un punto di vista neurofisiologico rigidi ruoli sociali che andrebbero, che devono, essere invece superati.
In anni diversi da quelli che dovrebbero essere i nostri, quelli attuali, affermare che vi fossero abilità divergenti tra i generi si legava a una volontà precisa di perpetuare la visione e l’ordine patriarcale della società, che affondava le sue radici in un’idea d’inferiorità della donna e delle sue capacità logico-cognitive.
Direi, però, e penso che molti di voi saranno facilmente d’accordo con me, che tutto questo andrebbe lasciato alle spalle, dimenticato, superato non solo a parole, ma anche con concreti fatti.
Quali sono, dunque, gli stereotipi “classici” associati al genere? Sicuramente quelli che vedono nell’uomo la forza, il vigore, la capacità di agire, la competenza, l’indipendenza, e, di pari passo, nella donna la fragilità, la propensione al rapporto di coppia, la delicatezza, la dolcezza, l’affettività, la maggiore capacità di comunicazione.
È però, davvero possibile categorizzare così nettamente gruppi che sono formati da individualità completamente diverse l’una dall’altra? Quello che è interessante notare è che questo genere di stereotipi sono complementari, e cioè pensati affinché alle “carenze” caratteriali dell’uno sopperiscano quelle dell’altra. Ragionando in tale maniera, quindi, la donna dolce avrà bisogno del maschio forte, quella insicura dell’uomo protettivo, e via dicendo, continuando così in maniera decisamente pericolosa per tutti, ingannati in questo modo da una realtà che non è quella vera.
Mi pare altresì evidente, ma è sempre bene rimarcarlo ancora, che una tale semplificazione appare non solo fin troppo riduttiva, ma anche fuorviante, e che contribuisce, troppo spesso, a portare avanti un modello tipicamente maschilista e patriarcale di società: quella che ancora oggi non siamo riusciti a debellare e, purtroppo, a cambiare radicalmente così come sarebbe auspicabile.
Sarebbe, onesto, e non tutti lo fanno e lo farebbero, ammettere anche che nonostante tutto ciò di cui stiamo parlando sia evidente, molti di noi, se non proprio tutti, parlando nel nostro quotidiano cadiamo talvolta vittime degli stereotipi di genere, proponendo frasi che, proprio perché determinate caratteristiche sono entrare ormai a far parte del nostro bagaglio culturale, non ci sembrano più neppure offensive o stereotipate, ma invece lo sono, eccome!
E qui, proprio da questo preciso momento, nasce la pericolosità data da un’errata generalizzazione che, mi dispiace dirlo, parte da molto lontano ma si è poi radicata, non avendo mai trovato un blocco, un freno, una fine.
Tornando alla centralità del tema affrontato oggi, mi preme ricordare, e immagino di non essere la sola a voler richiamare alla memoria un tale episodio, che già nel 1979 l’Unesco rilevava come la rappresentazione della figura femminile trasmessa dai media fosse completamente distorta, con la donna prevalentemente impiegata come “oggetto decorativo”, dipendente dal proprio marito dal punto di vista finanziario, e dedita esclusivamente alla cura della casa.
I tempi, però, fortunatamente cambiano e da allora molte cose sono migliorate, anche se non radicalmente come sarebbe auspicabile, e ciò è stato possibile anche grazie al contributo di programmi come il Global Media Monitoring Project, che da ben 20 anni è il più grande progetto di ricerca e advocacy contro la discriminazione di genere nei media, o End News Sexism By 2020. Tuttavia, mi pare corretto ricordare che alcuni sforzi, anche rilevanti, in questa lotta provengono anche dal nostro paese e non solo dall’estero. Si guardi ad esempio a associazioni come “Se non ora quando” e “Gi.U.Li.A”, un blog curato da una redazione di 800 giornaliste impegnate nella promozione del dibattito sulle tematiche di genere. Eppure, è evidente che il mondo dell’informazione risenta ancora di un radicato e marcato sessismo a livello di contenuti, rappresentanza, e immagini trasmesse.
Secondo i dati dell’ultimo Global Media Monitoring Project, le donne continuano a essere marginalizzate negli show televisivi riguardanti la politica (15%) e l’economia (10%), mentre la loro presenza aumenta quando si parla di temi concernenti la famiglia, l’educazione e la salute.
Nel libro “Ways of seeing”, lo scrittore britannico John Berger spiega come l’idealizzazione e l’oggettivazione della donna da parte dei media possa causare problemi di autostima femminile, con conseguente ricaduta sulle scelte educative e lavorative future.
La Teoria dell’oggettivazione (1997), dei sociologi Fredrickson e Roberts, descrive uno
dei maggiori rischi di un’errata rappresentazione della figura femmini-le. Essa mostra infatti il passaggio cruciale dall’oggettivazione alla auto-oggettivazione, dove la donna interiorizza la prospettiva dell’osservatore, portandola a essere maggiormente esposta a problemi alimentari e depressione. Ma quali ripercussioni può quindi avere questa rappresentazione distorta e stereotipata della donna nelle scelte che questa compie durante la sua vita? Gina Rippon, neuroscienziata della Aston University di Birmingham, con il suo libro The Gendered Brain, ha capovolto la visione antiquata dell’esistenza dicotomica di un tipico cervello maschile e di uno femminile, non solo sottolineando che ogni cervello è uguale solo ed esclusivamente a se stesso, ma anche delineando quanto il nurture abbia un ruolo basilare nel determinare quella che lei definisce la “pinkification” encefalica. Questo termine, profondamente iconico, pone enfasi sul ruolo degli stereotipi sociali di genere nel determinare differenze sostanziali nei cervelli di uomini e donne. Gli studi sono stati svolti con l’utilizzo di risonanze magnetiche sia strutturali, che si limitano a vedere la morfologia delle strutture nervose, che funzionali, ovvero in grado di farci capire quale sia il grado di attivazione di alcuni circuiti neuronali in base alla risposta emodinamica del soggetto. Oltre a queste due tecnologie, Rippon ha fatto anche uso dell’elettroencefalografia e della magnetoencefalografia, sempre utilizzate allo scopo di analizzare quanto certe aree cerebrali si attivino in risposta a determinati stimoli.
Abbandonando per un momento la letteratura e passando a dati più concreti, secondo l’Istat, il numero di donne nei programmi Stem (Science, technology, engeenering, mathematics) risulta ancora essere inferiore a quello degli uomini, nonostante il numero di donne con un livello di istruzione terziario superi quello della controparte maschile. L’esatta percentuale è 32.5% contro il 19.9%.
Da una delle più recenti indagini dell’Ipsos sui pregiudizi di genere tra ragazzi/e delle scuole medie condotto in Italia, emerge una visione del futuro fortemente stereotipata. Quando alla domanda “Cosa vorresti fare da grande?” i maschi rispondono ingegnere, medico e informatico, le ragazze dichiarano di aspirare a diventare insegnanti, veterinari e avvocati, manifestando quindi un’ambizione professionale fortemente orientata a determinati sbocchi. Ciò può essere riconducibile a percezioni distorte delle proprie possibilità nel futuro lavorativo: sebbene i dati mostrino come le ragazze non pensino di essere meno portate scolasticamente rispetto alla controparte maschile, il 56% delle ragazze pensa che sia più facile per un uomo rispetto che per una donna fare carriera. E nonostante questi flussi abbiano dirette ripercussioni sulle disparità salariali di genere, i dati mostrano che c’è qualcosa di più.
Infatti, secondo l’Oecd, se il 60% del gender pay gap è dovuto a una maggiore propensione delle donne al lavoro part-time, a mansioni poco remunerate e a lavori con una bassa fascia retributiva, circa il restante 40% risulta essere ancora inspiegato. Inoltre, la figura della donna nella società è ancora legata a compiti familiari come la cura dei figli e lavori domestici, e ciò influisce fortemente sulla loro partecipazione al mondo del lavoro.
Dagli ultimi dati Istat, si evince infatti che nel secondo trimestre 2017 il tasso di occupazione delle 25-49enni era l’81,1% per le donne che vivono da sole, il 70,8% per quelle che vivono in coppia senza figli, e il 56,4% per le madri.
La forte responsabilizzazione dei produttori televisivi e una regolamentazione più centralizzata potrebbero quindi essere le vie più pratiche per affrontare i problemi dell’oggettivazione femminile e dello stereotipo nei media. Questo poiché le persone, o i gruppi, da cui ci sentiamo rappresentati influenzano automaticamente la nostra percezione del mondo: la maggiore partecipazione al dibattito pubblico e il distacco dalle rappresentazioni tipiche del velinismo devono essere i principali fattori attraverso i quali incanalare l’enorme potenza comunicativa dei media, indirizzandoli verso la sensibilizzazione e promozione della rinascita sociale della donna.
I motivi della sotto-rappresentanza femminile sono molteplici e dipendono da svariati fattori esogeni ed endogeni, e certamente vengono influenzati dallo specifico contesto socio-culturale ed economico di riferimento. La rassegna che viene qui proposta relativa a dati statistici e di ricerca delle realtà della rappresentanza, e quindi della visibilità e corrispettivo potere, delle donne sulla scena pubblica oggi in Italia, esplora una delle possibili cause (o meglio con-cause) di una manifesta mancanza di visibilità, anche politica, femminile: la pervasività e relativa interiorizzazione degli stereotipi di genere.
La letteratura psico-sociale degli ultimi decenni documenta una dinamica di funzionamento degli stereotipi molto più subdola e strisciante di quanto siamo portati a pensare. Uno stereotipo “implicito” e “automatico” acquisito e consolidato attraverso i più quotidiani processi di socializzazione, che sfugge al controllo intenzionale degli esiti del pensiero, può sabotare il razionale atteggiamento egalitario dell’individuo e indurlo ad espressioni di pregiudizio subdolo. Le donne, tanto quanto gli uomini, possiedono l’intero repertorio di stereotipi cosiddetti “impliciti” di genere che, in maniera più o meno inconsapevole, guidano le scelte e comportamenti, molto spesso, nella direzione più tradizionale. Non solo variabili esogene quindi, ma anche meccanismi automatici di natura endogena possono ritardare, ostacolare o inibire quel “varcare la soglia” delle donne nelle più alte sfere della gestione e del potere.

 
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